09 novembre 2008

Franca Valeri: un’amica d’eccezione

UN PASSATO ENORME, UN FUTURO PIENO DI PROSPETTIVE

Principessa di una indimenticabile Compagnia

Una volta tanto, finalmente, mia moglie viene a prendermi al giornale con qualche minuto d’anticipo e possiamo raggiungere il teatro con andamento più distensivo. Si tratta di una serata speciale: non andiamo a vedere uno spettacolo, ma un’attrice. C’è una certa differenza tra le due cose: quando vai a teatro a vedere una commedia di Shakespeare, per esempio, com’è accaduto la sera precedente, o di Pirandello, vai con una predisposizione interrogativa: ti domandi, come sarà l’allestimento? Quando invece vai a vedere un interprete, sapendo bene chi è, la predisposizione è già sublime, prima ancora di accomodarti in platea. Quando poi vai a vedere Franchina – pardon, Franca Valeri – allora la sublimazione diventa tangibile.

Già l’applauso di sortita non è il solito, quello che accompagna i primi passi del rinomato protagonista che è un bravo attore che merita rispetto e quindi bisogna applaudirlo; no, l’applauso per Franca nasce come un preciso impeto di ringraziamento per quel che è stata e per quel che è. Un mito della scena italiana. Il sipario si apre su «Carnet de notes 2008»; già, perché il primo «Carnet de notes» si ricorda del 1951 quando la Valeri era agli inizi e, dopo aver acquistato notorietà in Italia alla radio, volò a Parigi con un trio anch’esso divenuto storico, chiamato I Gobbi, con Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci; e ogni sera in platea, ad ammirare il loro esilarante repertorio, potevano sedere Sartre con la De Beauvoir, Paul Claudel, o magari Edith Piaf, oppure Jean Renoir con Coco Chanel, non perché quei tre giovani italiani fossero già famosi, ma perché «Carnet de notes» era uno spettacolo che faceva ridere tanto. Rompeva i canoni teatrali di prosa dell’epoca senza trascendere nel varietà o nelle macchiette da café chantat. Era tutto a pezzetti: sketch, battute, gag, ma allo stesso tempo tutto era legato da un filo conduttore intellettuale. L’anno successivo, addirittura, in «Carnet de notes n. 2» Caprioli fece debuttare anche Camilla, la sua cagnetta, inventando un esilarante teatro per cani. Insomma si rideva moltissimo e si ride anche oggi, nonostante il modo di ridere sia molto cambiato. La Signorina snob nacque in quel periodo e sopravvive tenacemente anche al cospetto della nostra disastrosa Seconda Repubblica, con una sola differenza: invece di formare il numero telefonico con il più suadente gesto circolare del dito indice, ora è in preda a una nevrosi da tastiera. L’altra sera in platea, proprio davanti a me, non c’era Sartre e nemmeno Coco, ma una ragazza che alla fine, a luci accese, cercava in fretta di mitigare le lacrime spuntate per quanto aveva riso durante la rappresentazione; e, a sipario ormai chiuso, continuava a ridere. Si è voltata verso di me e mi ha chiesto se sapevo quanti anni avesse la signora Franca Valeri. «E’ del 1920, ma non lo dimostra».

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Quando la vedo non posso fare a meno di pensare che lei ha recitato con i più eccelsi maestri della nostra scena e del nostro cinema. Qualche nome? Totò prima degli altri, poi De Sica, Visconti e Fellini; Risi, Eduardo, Sordi, Rascel, Mastroianni, Monicelli, Caprioli, Comencini, Steno, Emmer, Randone, la Loren, Vallone, Patroni Griffi, la Girardot, Taranto, Tognazzi, Bolognini, Stoppa e tanti, tanti altri. Leggendo quest’elenco, pur incompleto, non si fatica a capire che la Valeri rappresenta il teatro e il cinema italiani.

Non voglio soffermarmi sullo spettacolo (lasciamolo fare ai signori critici, i quali sono sempre così bravi a non far trapelare nulla dai loro giudizi!): è difficile, e non altrettanto divertente, riportare per iscritto le sensazioni trasmesse dalla performance di questa immensa attrice. Nella sua arte di monologare, in un’epoca in cui i palcoscenici nostrani offrono quasi esclusivamente monologhi (ricordiamolo, secondo un principio Classico, non sarebbero prettamente “Teatro”) nella sua arte, dicevo, sussiste la forza del dialogo: le espressioni, gli atteggiamenti, sono eternamente dialoganti, per cui la Valeri, pur essendo unica attrice in scena, riesce a far vivere attorno a sé due tre, anche quattro, interlocutori, muti, a volte addirittura morti, tuttavia divertenti, ironici, sarcastici. Sono lì, sempre pronti a ribatterle ogni parola, ogni virgola.

Un paio di stagioni orsono, durante l’intervallo di un suo spettacolo, nel foyer del teatro, si avvicinò un cameraman con telecamera in spalla, e la giornalista col microfono in mano mi chiese cosa pensassi della Valeri. Risposi sicuro di non sbagliare: «Franca Valeri è la più moderna attrice del nostro palcoscenico. Purtroppo, spesso, la sua modernità crea un contrasto troppo forte con chi gli sta vicino, il quale appare, irrimediabilmente, più antico». Quella sera c’era con lei un giovane attore, e i miei amici mi imputarono di aver commesso, irrimediabilmente, una clamorosa gaffe nei suoi confronti. Gli amici, a cui mi accompagnavo, però, non hanno mai visto Franca Valeri costruire i suoi personaggi.

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Conobbi Franchina quasi 20 anni fa, quando andai a prendere a casa sua, in campagna, due quadernoni scritti fitti fitti a penna. Era la traduzione dal francese di «La fleur des pois», la commedia di Edouard Bourdet che Patroni Griffi, con cui già lavoravo da qualche tempo come assistente, avrebbe messo in scena la stagione successiva. Passai gran parte dell’estate a battere a macchina e a decifrare la sua calligrafia per riordinare il copione e passarlo alla tipografia che ne avrebbe stampate diverse copie. Le battute di «Fior di pisello» erano scritte in maniera strana, uno stile che – all’epoca – non riuscivo a comprendere del tutto; tra le righe restava sempre in sospeso qualcosa d’inafferrabile, d’incompiuto. Poi arrivò il primo giorno di prove e ci sedemmo – una bella compagnia con oltre 20 elementi – attorno a un tavolo a leggere quelle parole che la Valeri aveva tradotto col suo linguaggio. Io, l’unico ad aver già letto il copione più volte (oltre a Patroni Griffi, naturalmente), pensai: adesso finalmente capirò. Niente, non s’afferrava un briciolo dell’intreccio sentimentale fra i personaggi. E più di me gli altri componenti della compagnia che quasi non riuscivano a comprendere neanche la sua elementare lettura. Eravamo tutti basiti di fronte a una grande – grandissima – attrice, la quale però non riusciva a farsi intendere neanche quando sillabava. Solo un vago mormorio. Alla fine della prova, quando Franca ci salutò e noi la ossequiammo, ci venne in soccorso il regista, dicendo, senza che nessuno glielo avesse chiesto: «Non ci fate caso a come ora Franca legge e propone. Anzi, vi assicuro che per questi primi giorni sarà anche peggio. Ma poi vedrete…». Di quel poi vedrete, non avevamo dubbi; ma nell’ambascia più totale restavano gli attori, quelli alle prime armi soprattutto, che avevano le scene con lei. Come fare a rispondere a un tono àtono? Come fare a equilibrare la propria recitazione se la persona con cui dialoghi non ti dà la scelta di un’intonazione? Passò così la prima settimana: lei continuava a mormorare e gli altri le annaspavano dietro nell’improbabilità più assoluta. Ma Patroni Griffi – suo amico da sempre – ci confortava: datele ancora un paio di giorni. Andammo in piedi e cominciammo a montare le scene con i movimenti. Il regista pretendeva da tutti il massimo rigore: la parte già a memoria, precisione nei ritmi, sicurezza nei gesti; certamente nessun altro in compagnia era Franca Valeri, la quale, invece, continuava ancora a smozzicare parole – per noi senza senso – che tuttavia cominciavano a prendere colore e da quel colore, dapprima opaco, fiorirono improvvisi colori vivaci, poi più accesi e infine brillanti, di una lucentezza surreale. Qualcuno si spaventò davvero che quella donnina, minuta, esile, con quell’andatura già traballante, potesse assumere da quei toni così bizzarri una prodigiosa enormità. Un colosso. E per tutti fu Franchina! Ci fu chi la chiamò Principessa per riconoscerle quell’onore che merita.

Un pomeriggio mi chiamò accanto a sé con il copione e mi disse di non essere contenta di come recitava una certa scena. Voleva che leggessi le battute degli altri personaggi senza scomodare il resto della compagnia. L’ascoltai tre volte in tre versioni completamente diverse: le parole erano sempre quelle, ma i tempi e i toni mutavano in maniera assoluta. Capii: ogni tempo, ogni pausa, esigeva il suo tono e viceversa, una semplice questione di rapporti; una magia teatrale che poteva trovare la soluzione in un’equazione matematica. Non ci avrei mai creduto. Eppure era così, un assioma!

Al termine della recita, l’altra sera, la raggiungo in camerino. «Come sei delicata, Franchina. Sei, grazie a Dio, tutto il contrario di quel che siamo costretti a vedere in televisione». «Ah, fortunatamente non la vedo mai! Andiamo. Chi mi chiama un tassì?». «Vieni con me, ti accompagno a casa io, ho la macchina». «Grazie, come sei caro». Appena lasciato il teatro passiamo davanti al Portico d’Ottavia e le viene un attimo di malinconia. «Se abitassi ancora qui, allora sì, che era comodo», aveva una bella casa con un grande pianoforte al centro del soggiorno. Allora le chiedo della casa di campagna a cui lei è affezionatissima: «Adesso ho cinque cani lì, e anche gatti. Ma Roro no, non lo lascio in campagna. Troppo snob, lui, per restare in campagna. No, lui è sempre con me». Roro, diminutivo di Aroldo – Aroldo III per la precisione – il suo cane preferito, ne ha fatte di tournée! credo sia tra i cani più dormiglioni del secolo, tutto il contrario della sua padrona. «E tu che fai?», mi chiede. «Sto pubblicando il secondo libro». «Sempre poesie?». «Sì». «Che bella presentazione facemmo insieme lo scorso anno!». «Bella davvero. Non potrò mai ringraziarti abbastanza». «E il teatro?». «No, Franca, non me la sento. Il teatro che mi ha cresciuto non esiste più, e tu lo sai bene». «Hai ragione. Oggi gli attori si perdono dietro a queste fiction. Non è recitare, quella roba lì; è tutto un buttar via di parole, d’intonazioni vuote, senza un’educazione. E se un attore non recita seguendo un’educazione, si perde subito». «Ma guadagnano». «Ah certo, la sopravvivenza. Che tristezza, però!». Percorriamo corso Francia e apre la sua borsa: «Fammi vedere se ho preso le chiavi di casa». Cerca, scava: «Ma sai che non si trova mai niente in queste borse. Cosa ce le portiamo appresso, non si sa!». Ridiamo. «Perché non hai mai scritto nulla sulle borse delle donne?». «Ci penserò. Può essere un’idea!». E’ quasi mezzanotte, rallento perché da una parte c’è una ruspa in azione notturna di smantellamento della strada, e dall’altra un podista, con tuta e cappuccio, anch’esso in azione notturna di corsa. Lei lo guarda: «Eeeeh, ma che vocazione ci deve avere!». Dopo un minuto ci salutiamo. «Allora, aspetto il tuo libro, così facciamo un’altra presentazione». «Promesso Franchina». «Sì, ma dimmelo con un po’ d’anticipo perché fra poco parto per la tournée e poi avrò le recite di Genet e poi dovrò mettere in scena la mia nuova commedia, sì, l’ho finita di scrivere da poco, si intitola “Non tutto è risolto”, ti piace? Allora, mi raccomando, ricordati di avvertirmi per tempo. D’accordo?».

Questa è Franca Valeri, di anni... ma che importanza ha! (fn)

Pubblicato sulla rivista Infofinax, ottobre 2008

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