10 novembre 2008

«Filumena Marturano», regia di Francesco Rosi

 Da sin. Antonella Morea, Lina Sastri, Luca De Filippo, Nicola Di Pinto

Roma, Teatro Argentina
9 ottobre 2008

EDUARDO MUMMIFICATO DALLA STATICITÀ IMPOSTA DAL REGISTA

Leggendo la locandina e conoscendo il temperamento dei protagonisti, le attese per questa serata sono tra le più ansiose delle ultime stagioni: Lina Sastri dovrebbe essere per natura Filumena senza nemmeno ricorrere a particolari impegni interpretativi; Luca De Filippo potrebbe essere tranquillamente un Domenico Soriano ancor più in parte di suo padre. Francesco Rosi alla regia offre, sulla carta, una certezza qualitativa. Naturalmente, però, si va a teatro anche per essere contraddetti. Tuttavia, le scene ideate da Enrico Job (scomparso nel marzo scorso), all’apertura del sipario, hanno mostrato l’ampio salone di casa Soriano: una visione, sì, un po’ tetra, ma tipica di certe stanze degli antichi palazzi blasonati. Un affresco di un interno che cela la storia di un passato, che dichiara l’agiatezza di una famiglia un tempo certamente molto più ricca. L’eleganza della camera e la profondità sfruttata per vedere uno spicchio arioso, romantico ma non troppo, della Napoli borghese, di quella ancora con parvenze nobilissime, è stata la prima nota a favore della messa in scena.

Filumena Marturano è il terzo e ultimo allestimento eduardiano della coppia De Filippo-Rosi, che in tre stagioni ha riportato alla ribalta anche «Napoli milionaria!» e «Le voci di dentro». Quando comincia il primo atto, i due protagonisti, sposi in extremis, li troviamo in proscenio l’una a sinistra e l’altro a destra, ognuno con il suo fido subalterno alle spalle. La posizione agli angoli della scacchiera ricorda un infantile gioco, detto universalmente i quattro cantoni, ma quell’antico passatempo era vivacizzato da repentine corse e accompagnato da urla festanti. Rosi invece, optando per una recitazione che mantenga il più possibile a distanza la facile tentazione della popolaresca sceneggiata (diciamo pure: per non rischiare la sceneggiata) blocca tutto. I quattro personaggi in scena restano per tutto l’atto rintanati ognuno nel proprio angolo, non azzardando mai una mossa, nemmeno negli attimi più incandescenti e viscerali. E in Filumena (testo e personaggio) questi non mancano.Da principio il gelo suggerito dal regista regala al pubblico esperto una curiosa novità, un’intuizione inaspettata, soprattutto per chi conosce le appassionate corde recitative della Prima attrice che in questo modo è ingabbiata, e costretta a osservare un rigore assai efficace, quasi altero. Al termine del primo atto però il gelo inizia a scendere (in parte) anche in platea per l’eccessivo immobilismo. La costante staticità fisica e la fissità recitativa consegnano un Eduardo (autore) tumulato e mummificato: non è la parola a chiederlo, ma è la scena realistica che lo esige. Si sente un gran bisogno di movimento intorno a quel tavolo che, senza vita intorno a se, diventa un pezzo museo e l’intero dramma ne patisce l’odor di naftalina.

Quando il sipario si riapre sulla scena comica tra i due subalterni, si spera e si anela che accada qualcosa, ma appena Rosalia (Antonella Morea) entra, conquista il suo angolo avanti a sinistra e da lì non si muove più, ricordando anche nella recitazione l’imbavagliamento imposto dalla regia. Poi arrivano i figli di Filumena che offrirebbero una possibilità di maggior agilità e sveltezza, ma non è così: tutto resta fermo. Immobilità che nel pubblico si trasforma in irritazione. Successivamente soltanto a lei, alla protagonista, è concesso muoversi – ma solo perché il copione lo richiede – e la Sastri ne approfitta per prendere possesso delle sue possibilità recitative trattenute durante la prima parte. Se l’iniziale fermezza fisica aveva rappreso la protagonista anche nel linguaggio, obbligandola a una dizione più secca, ora l’immobilità degli altri personaggi le regala più slancio e coraggio: lei finalmente libera e gli altri ancora bloccati all’angolo.

Da quando le sue parole arrivavano intere, ora all’improvviso pare si siano ammalate di un virus che ne tronca la sillaba finale. A Filumena, la libertà di poter finalmente camminare per la stanza, senza catene, le concede la facoltà di frammentare le sillabe del suo autore e restituirle al pubblico trattenendo il corrispettivo della commissione: una parcella che le spetterebbe in qualità di tramite tra commediografo e spettatore. Il personaggio, d’altronde, vivendo di parole, di parole si ciba, e non è così assurdo che rubi qua e là qualche sillaba. In platea, se prima si era in ansia per l’immobilità gelida degli attori, adesso si soffre perché molte sillabe restano ancorate al diaframma dell’attrice. Un delirio attoriale che si riflette moltiplicandosi negli atteggiamenti e nei gesti ripetuti con l’ossessione di un automa: lo scialle preso per i pizzi e richiuso sul petto, le mani che cascano sempre e solo sulle gambe in segno di sfida popolaresca. Tutto diventa estremamente ripetitivo.

Dall’altra parte resiste la staticità di Luca De Filippo, e di tutti gli altri costretti eternamente alle corde: vietato per loro conquistare il centro del ring. Un particolare che rende anomale perfino le uscite di scena: a costoro, stando vicino alle porte, sono sufficienti tre passi per infilarsi in quinta e, quando sono costretti a consumare una battuta appena più lunga del dovuto, cominciano a zoppicare, a raccogliere un nonnulla terra, ad avvertire un prurito, in modo da riuscire a terminare la frase prima di scomparire.

Viene il sospetto che la scelta di Rosi, fino a poco fa tanto criticata, avesse un valido motivo! Se la fermezza faceva almeno intendere il testo, ben vengano catene e tiranti!

Il terzo atto. La stessa identica scena rivestita a festa con fiori che annunciano l’arrivo degli sposi. Eccoli giungere dall’ingresso in fondo a destra. È il momento più movimentato, quello che visivamente distoglie lo spettatore da una sonnolenza cullata dai suoni incomprensibili della Sastri, la quale finalmente ora può dar libero sfogo alle sue lacrime senza doverle nascondere. Ricordiamo l’originale, però: Filumena non sa piangere perché – lo rivela essa stessa al primo atto – «solo chi conosce ‘o bbene sape chiagnere, ma Filumena Marturano, bbene, nun l’ha maje canosciuto»; la Sastri invece sape chiagnere, e le lacrime, durante gli atti precedenti, le scendono a iosa, incurante di quanto affermerà al finale.

All’improvviso cala un siparietto e in trasparenza alcuni servi di scena portano via tutto, fiori, corbeille, tavolo da pranzo, sedie, divanetti e poltroncine (mai usate, chissà perché!); al rialzarsi della tela le luci sul fondale si abbassano oscurando la bella Napoli e un proiettore illumina solo una poltrona al centro. È evidente che i protagonisti hanno traslocato in un’altra stanza. Ma non è così, perché subito ci si accorge che essi entrano ed escono dallo stesso ingresso in fondo a destra. Per loro nulla sembra sia cambiato. Perché allora la scena è mutata? Non lo può sapere nessuno, tranne coloro di buona memoria che assistettero, molti anni fa, a un recital di Eduardo al teatro Tenda di piazza Mancini in cui, il grande attore colloquiava con la voce registrata della sorella Titina rappresentata, anche allora, da quella stessa poltrona (che ovviamente fu quella della prima edizione teatrale della commedia): un tenero omaggio che, per la maggior parte del pubblico resterà un arcano. (fn)
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Filumena Marturano di Eduardo De Filippo. Con Lina Sastri, Luca De Filippo, Nicola Di Pinto, Antonella Morea, Giuseppe Rispoli, Gioia Miale, Daniele Russo, Antonio D’Avino, Chiara De Crescenzo, Carmine Borrino, Silvia Maino. Scene, Enrico Job. Costumi, Cristiana Lafayette. Luci, Stefano Stacchini. Regia, Francesco Rosi

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