27 novembre 2009

«I 39 scalini» di Patrick Barlow


Roma, Teatro Vittoria
11 novembre 2009

LA GIOCOSA ILLUSIONE DEI FANTASTICI QUATTRO

Nel 1935 Alfred Hitchcock, regista cinematografico ormai nell’Olimpo, prese a pretesto una novelletta (come direbbe Pirandello) d’inizio secolo e ne fece, grazie all’adattamento di Charles Bennett, un ottimo film. Talmente ben riuscito che da allora fino al prossimo 2011 se ne contano almeno 4 remake (l’ultimo dei quali naturalmente nessuno l’ha potuto vedere, essendo per il momento ancora un progetto). I 39 scalini è un titolo che richiama folla al botteghino: merito del maestro del giallo più di quel John Buchan autore legittimo del romanzo.

10 novembre 2009

POESIA «Sorso di notte potabile» di Flaminia Cruciani

L’ACQUA PUÒ RICORDARE LA MORTE?

Anche Flaminia Cruciani per molto tempo – come dice – è andata a letto presto la sera, ma lei ha l’accortezza di svelarci il peccato soltanto al termine del suo pamphlet, per trovare riparo dietro a un velo per lo più trasparente, forse opaco, ma a volte pesante come un sipario di velluto, altre ancora arioso e colorato come un grande tulle dipinto da Balla.

Ho esitato a lungo prima di fissare le impressioni su questo puzzle letterario in forma di ballata, perché soltanto da poco ho avuto la folle intuizione (presuntuosa anche) di rileggere Sorso di notte potabile, proprio come se dovessi cominciare a comporre un rompicapo.

07 novembre 2009

«Cyrano de Bergerac» di Edmond Rostand

Roma, Teatro Argentina
5 novembre 2009

IL TOCCO DEL FUORICLASSE NON PREMIA LA SQUADRA

Ai novelli critici di teatro, quelli che rimescolano le note di regia appuntate sugli opuscoli distribuiti nel foyer, sembrerà assai bizzarro che quest’ultima edizione del capolavoro di Edmond Rostand mi abbia ricordato il Napoli di Maradona, primo estratto. Accadde, molti anni orsono, che il buon Totonno Juliano (all’epoca direttore sportivo della società calcistica partenopea) riuscì a portare sul bel panorama del Golfo il calciatore più ambito, il gioiello che già tutti chiamavano el pibe de oro: il numero uno. Era il 1984 quando Diego Armando Maradona si trovò a far parte di una compagine ancora senza né capo né coda. In campo, un po’ angosciati dall’impietoso paragone, i compagni lo cercavano per consegnargli il pallone in attesa che se la sbrigasse lui da solo. Era evidente che le partite si riducevano a una sfida uno contro undici. L’asso argentino certamente era in grado di compiere gesta da supereroe, ma il suo tocco non bastava: e il Napoli, guidato pure da un allenatore poco incisivo, quella stagione concluse il campionato all’ottavo posto, a metà classifica. Soltanto l’anno successivo il presidente Ferlaino comprese che se avesse voluto portare la squadra a livelli più competitivi avrebbe dovuto sostenere il talento di Maradona con calciatori che sapessero toccare il pallone e non soltanto colpirlo, capì pure che avrebbe dovuto far condurre la formazione da un comandante d’eccezione. Solo così arrivarono poi successi e trofei.

03 novembre 2009

«Una volta nella vita» di Gianni Clementi

 

Roma, Teatro ...*
30 ottobre 2009

LA REGIA STORDITA DELL’ALLEGRO OBITORIO

Chissà se Gianni Clementi, autore di questa divertente pièce teatrale, è a conoscenza che già nel 1930 due signori americani, amanti del grande cinema hollywoodiano, ispirati dalla comicità dei fratelli Marx, scrissero «Once in a lifetime» (Una volta nella vita, appunto), riproposta in Italia nel 1993 dalla compagnia di Giuseppe Patroni Griffi, équipe definita da un critico dell’epoca, Guido Almansi, la «nuova Shakespeare Company». Mi pongo questa domanda perché il copione ideato da Clementi non ha nulla a che fare con l’opera degli americani: tranne che per il medesimo titolo, è tutta un’altra vicenda. Lì, i protagonisti, tre scalcagnati attori di teatro, andavano in cerca di fortuna (quella che passa una volta nella vita) sperando di poter insegnare l’arte della recitazione ai divi del muto all’improvviso spiazzati dal Vitaphone, il sistema che donò voce alle immagini proiettate dalla pellicola; qui invece, ci si trova in un obitorio al cospetto di quattro cadaveri freschi di giornata pronti a dar spettacolo dei loro peccati commessi in vita… una volta, cioè!

05 ottobre 2009

Antonio Ghirelli su «Bischizzi»

Antonio Ghirelli

LA SENSAZIONE URTICANTE DEI «BISCHIZZI»

Al lettore distratto, questi Bischizzi di Fausto Nicolini possono sembrare una festa di fuochi d’artificio, una tempesta di brevi lampi nel buio, accesi per divertimento da un artista dispettoso. A leggere meglio, però le quartine e gli endecasillabi dei quali parla nella sua geniale introduzione Lino Angiuli, rivelano l’amarezza profonda di un ancor giovane intellettuale ed uomo di teatro, che scopre di trovarsi in un’epoca disadorna di ideali e di valori, un’epoca di crisi nella quale – come avrebbe detto il Papa polacco – si avverte dolorosamente e talora sdegnosamente la mancanza di una «visione», cioè di una percezione e sistemazione della realtà in un progetto spirituale, politico e storico ben definito.
È come se il «Guarracino» in cui si identifica l’autore del libretto di poesie che Michelangelo Camelliti ha pubblicato in una edizione semplice ma elegante, nuotasse in un mare senza pesci e senza bagliori di luce. Una sensazione urticante.

Antonio Ghirelli

22 giugno 2009

POESIA «Scovando l’uovo» di Vincenzo Mascolo

IL SOFFUSO CONTROCANTO DI MASCOLO

Dalle primissime parole che Mascolo usa nell’introduzione alla sua nuova raccolta poetica non si può (e non si deve) sottovalutare l’enorme rispetto che l’autore ha nei confronti del proprio lettore. E allora io mi metto nei panni del lettore, quale d’altronde sono, e scrivo in prima persona. Vincenzo Mascolo avvisa che le introduzioni spesso mettono a disagio chi si appresta alla lettura di un volume, ma – ci fa capire, chiedendoci quasi scusa – che stavolta non se ne può fare a meno. Egli è, in un certo senso, costretto dall’argomento affrontato: toccando «problematiche così complesse e delicate, in molti casi addirittura drammatiche». Io, lettore, mi spavento un po’ e corro più attentamente a osservare la copertina e rileggo: Scovando l’uovo. Sì, è a tutti gli effetti un libro di poesie, ma il sottotitolo tra parentesi (appunti di bioetica) potrebbe forse allarmarmi, sicuramente mi accende qualche sospetto. Allora Mascolo, con le sue parole, cerca di prevenirlo, preparandomi e accompagnandomi alla degustazione delle quartine, portandomi a braccetto per qualche pagina in cui riassume in breve una precisa e chiarissima dottrina sulla storia letteraria della bioetica, non senza qualche considerazione personale.

14 giugno 2009

LA POESIA: «Sacco & Sacchetti Blues»


Roma, 12 gennaio 2008

Sacchi colmi di rifiuti e sacchetti della spazzatura
sacchi avvelenati, conseguenza di una congettura
ma soprattutto sacchi di sinistra e sacchi di destra
monotoni sacchi lordi della solita minestra
Sacchi corrotti impiegati della buoncostume
e viscidi sacchetti figli di pattume
sacchi traboccanti solidi urbani ed extraurbani
ma anche sacchi proletari ed extracomunitari
Non mancano i sacchi della malavita
e quelli in cerca di una buonuscita
Lì, con l’obbligo di firma, tre sacchi cattivi
altri due dispersi, evasi con gl’incentivi
E poi sacchi di fantocci ammaestrati
sorridenti in attesa di essere indagati
Qualche sacco in borghese, stile inglese
sacchi ribelli e sacchi meno belli
Sacchetti ridotti alla miseria e sacchi sfondati
ricchi esagerati che calpestano quelli condannati
Sacchi d’importazione e sacchi senza filtro
Sacchi in attacco sacchi in difesa e schierati a zona
sacchi in contropiede e sacchi di rigore
sacchi vuoti obbligati a far rumore
Sacchi al dente e sacchetti al pomodoro
sacchi al forno che sono un capolavoro
sacchi indipendenti e del dopolavoro
tutti in preda al declino di ogni decoro
Uno solo trascurato, abbandonato, maltrattato
differenziato perciò diseredato e gonfio d’amarezza:
è l’unico autentico sacco d’ ’a munnezza


© Fausto Nicolini

Da «Bischizzi», LietoColle (2009)

06 aprile 2009

«La famiglia dell'antiquario» di Carlo Goldoni

Roma, Teatro Argentina
28 marzo 2009

SONATA PER STREHLER:
ALLEGRO CON BRIO MOZARTIANO

Nell’ambiente teatrale spesso si sentono ripetere frasi, trite e ritrite, che risalgono alla notte dei tempi. Una di queste, la cui origine però può essere rintracciata in epoche più recenti, suona così: gli abbonati hanno ucciso il teatro. Il qualunquistico modo di dire debuttò negli anni Settanta, quando la politica gestionale delle sale aprì a investimenti rapidi e sicuri promuovendo prevendite di biglietti per l’intera stagione: non si vuol dire che i signori abbonati siano degli «assassini» o siano stati chiamati per distruggere i teatri (sarebbe eccessivo!), ma significa che l’istituzione dell’abbonamento ha portato una malaria impiegatizia anche dove se ne sarebbe fatta volentieri a meno. Non so se lo stesso spento atteggiamento abbia contagiato gli abbonati dell’intera nazione, ma a Roma più i teatri sono storici più il pubblico sa di naftalina, è inespressivo: raggiunge la platea senza troppi entusiasmi; già nel foyer sembra costretto a un sacrificio, abituato com’è a restare seduto a casa in poltrona a fare zapping e soffermandosi su quei programmi in cui si litiga per un nonnulla.

05 febbraio 2009

«Don Chisciotte» di Franco Branciaroli

Roma, Teatro Argentina
27 gennaio 2009

UNA INDIMENTICABILE SERATA CON VITTORIO E CARMELO

È un raffinato giocoso pretesto il Don Chisciotte proposto da Franco Branciaroli che rende doveroso omaggio a due suoi grandi amici. È uno spettacolo costruito sul filo del privato, quasi un’esigenza intima di dar voce a due geni del palcoscenico di ieri. Branciaroli lo abbiamo imparato a conoscere: sa essere uno straordinario attore. Nessuno, più di lui, nell’ultimo ventennio, seppe cogliere meglio l’animo di Otello; e, pur se difficile da immaginare, arrivò a sfiorare con atteggiamento poetico quello di Medea; incantevole spregiudicato in «Finale di partita». Fin qui Branciaroli, come attore, s’è sempre sacrificato, reprimendo parte di se stesso, per mettersi al servizio dei personaggi; in questo «Don Chisciotte» (spettacolo da lui ideato, costruito e diretto, oltre naturalmente che interpretato) s’è invece immolato per portare in ribalta – prima di ogni altra cosa – i valori dell’amicizia e della gratitudine.

29 gennaio 2009

«Il laureato», tratto da Terry Johnson

Roma, Teatro Quirino
24 gennaio 2009

GIULIANA DE SIO, AFFASCINANTE E DIVERTENTE MRS. ROBINSON

Se facciamo finta di ignorare che il laureato (minuscolo perché non mi riferisco al titolo) è un personaggio creato dalla penna di Charles Webb nel 1963 («The graduate»), prima ancora di diventare un simbolo della cinematografia americana, nessun sapientone ci prenderà mai sul serio. Tuttavia fare paragoni, sia con il romanzo che con la pellicola (che è del ‘67) di Mike Nichols che consacrò Dustin Hoffman, non è il miglior passo per cominciare la recensione di uno spettacolo presentato quasi mezzo secolo dopo il suo battesimo letterario. Questa versione italiana firmata Antonia Brancati e Francesco Bellomo, e targata alla regia daTeodoro Cassano 2008/’09, ha gambe fresche e robuste per poter camminare da sola e non ha bisogno di passare al vaglio di altre riscritture precedenti.

Tutti i temi politici e sociali prettamente americani di quel periodo restano volutamente opachi: sono ormai trapassati (la gioventù ribelle stile «Easy Rider», la critica al vuoto conformismo made in Usa) e, come roba vecchia, vengono trattati dagli adattatori. I quali si concentrano, invece, sul tema che a noi oggi interessa di più: il rapporto che le donne sposate intraprendono con gli studenti. Anche in Italia da tempo c’è un florilegio di relazioni tra le cosiddette milf e giovani ancora imberbi. Pure questa, se vogliamo, è una rivoluzione: una volta erano solo i ragazzi che si potevano vantare di simili fortunate esperienze, ora nessuno più si nasconde dietro segreti.

La storia, per lo più, la si conosce e chi non la conosce corra a teatro a godersi poco più di due ore di rilassante divertimento. Ammetto, però, con estrema sincerità il mio prudente scetticismo nell’accostarmi a un allestimento che poteva avere nelle intenzioni soltanto un facile richiamo per le allodole. E quando, ancora nel foyer affollatissimo, ho chiesto al direttore di sala se «Il laureato» avesse radunato tanta gente tutte le sere, ho letto nel suo convincente assenso un raro stupore. I nomi di cartellone possono essere un’eco incredibile che, un romanzo di discreto successo, un film premio Oscar, e un’attrice che negli anni passati ha saputo seminare bene in altri campi (soprattutto cinematografici), hanno amplificato senza neppure molta fatica. Operazione commerciale perfettamente riuscita. Il Teatro (quello con la lettera maiuscola) ringrazia. Ne ha bisogno!

All’aprirsi della tela lo spettatore è invitato ad addentrarsi in un acquario: attraverso bollicine e rumori subacquei ci si fa breccia nell’angustia e nell’insoddisfazione del neolaureato Ben Braddock. Il regista così mette subito in chiaro due annotazioni fondamentali per predisporre lo spettatore a una visione ideale: l’ironia e la leggerezza; bolle che fanno glu-glu-glu e pesci che pacificamente e dolcemente ci accompagnano all’interno della narrazione di molte nevrosi, tipiche non solo degli anni Sessanta.

Quando poi all’intervallo ho acciuffato il commento di un avventore in giacca e cravatta, il quale sottolineava come datata la situazione rappresentata in scena, ho cercato di capire quale di quelle signore lì intorno fosse stata la di lui moglie, per convincermi che certe storie di noie e tradimenti non suonano mai soltanto al passato. Esse sono eterne più di noi! Quindi giustamente il regista sottolinea la celata noia di Mrs. Robinson, quella signora quasi sempre alticcia, resa celebre dalla canzone di Simon & Garfunkel, le cui note famosissime, riecheggiano appena, accompagnando la chiusura del primo sipario; anche questa è un’apprezzabile scelta registica: altrimenti il brano avrebbe preso immediatamente il sopravvento su tutto il resto distogliendo l’attenzione del pubblico. Invece Cassano, sapientemente, così come centellina la musica, dosa luci e posizioni anche quando la bella protagonista si mostra senza veli, in atteggiamento disinvolto sia come personaggio innanzi alla sua preda, sia come interprete davanti alla gremita platea.

Segue il tripudio dei sensi tra Mrs. Robinson e il giovane Ben: momento delicato e studiato per esaltare la delicatezza e la dolcezza dell’atto amoroso tra un’affascinante cinquantenne e un ragazzo esperto soltanto di teorie; il regista, in questa occasione, evita di cascare nell’osé, nella facile tentazione dell’esibizione pruriginosa, proteggendo la sequenza con sapienti tagli in stile cinematografico, costruendo una casta atmosfera tra bui, ombre e penombre. Tutto il resto, però, è avvolto sempre da luce piena e quasi solare, per non far perdere allo spettatore il clima gioviale che, come dovrebbe essere, predispone al buonumore.

E si ride molto. Giuliana De Sio e il giovanissimo Giulio Forges Davanzati hanno trovato un affiatamento e una complicità che pare vada al di là della semplice collaborazione professionale: nel senso che in scena si sta meglio, e si lavora meglio, e si creano più vive emozioni, soltanto quando anche dietro le quinte sussistono tra gl’interpreti stima, rispetto e soprattutto divertimento reciproco: un condimento determinante per la migliore riuscita di ogni spettacolo. Forges Davanzati ha soltanto 22 anni e – bisogna dirlo – per la sua età ha già raggiunto un eccellente risultato, mantenendo toni e tempi sempre tesi e precisi. La De Sio, nel ruolo, è completamente a suo agio, domina la scena con il suo fascino; la sicurezza fisica addomestica anche la recitazione. Soltanto al finale forse l’ultima ubriacatura prende il sopravvento troppo presto: l’esuberanza attoriale quasi mai ricambia con egual moneta il temperamento di un personaggio. Se Mrs. Robinson al termine gode di una doppia rivincita, come moglie e come madre, questa arriva al pubblico da quel che accade e mai dalla carica emotiva di chi interpreta. Asciugando e dominando qualche esuberanza, il risultato acquisterebbe certamente un valore più raffinato. Tuttavia l’entusiasmo che si legge sul volto della rubiconda prima donna, agli applausi finali che la platea le tributa con sincero ringraziamento, è la dimostrazione della sua vittoria.

Laddove la rappresentazione desta qualche sospetto di poco approfondimento è nel contorno. Soprattutto i due ruoli adulti maschili mostrano caratteri troppo simili, sembrano quasi recitati dallo stesso attore, le stesse intonazioni, lo stesso pathos, l’identica vis comica. Meraviglia che un regista attento, come s’è dimostrato Cassano, non abbia dato maggiori indicazioni per diversificare le personalità, che da copione (almeno quello italiano) sembrano disegnate da una sola penna.

Doveroso spendere qualche parola anche sul gradevole impianto scenografico di Carmelo Giammello. L’assemblaggio, di sicuro effetto, delle molte scene non sempre conferma la stessa cifra stilistica (in alcuni momenti si ricorre a un puro e semplice corridoio di proscenio) ma risulta senz’altro funzionale per gl’innumerevoli cambi. Peccato che aprendo una stessa porta, in ambienti differenti, s’intraveda l’identica greca sul muro di fondo. (fn)
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Il laureato adattamento da Terry Johnson, versione italiana di Antonia Brancati e Francesco Bellomo. Con Giuliana De Sio, Giulio Forges Davanzati, Alessia Cardella, Pietro De Silva, Valentina Cenni, Luigi Di Fiore, Antonio Petrocelli. Scene, Carmelo Giammello. Regia di Teodoro Cassano.

In foto, Giuliana De Sio © Photo Steffi

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