05 febbraio 2009

«Don Chisciotte» di Franco Branciaroli

Roma, Teatro Argentina
27 gennaio 2009

UNA INDIMENTICABILE SERATA CON VITTORIO E CARMELO

È un raffinato giocoso pretesto il Don Chisciotte proposto da Franco Branciaroli che rende doveroso omaggio a due suoi grandi amici. È uno spettacolo costruito sul filo del privato, quasi un’esigenza intima di dar voce a due geni del palcoscenico di ieri. Branciaroli lo abbiamo imparato a conoscere: sa essere uno straordinario attore. Nessuno, più di lui, nell’ultimo ventennio, seppe cogliere meglio l’animo di Otello; e, pur se difficile da immaginare, arrivò a sfiorare con atteggiamento poetico quello di Medea; incantevole spregiudicato in «Finale di partita». Fin qui Branciaroli, come attore, s’è sempre sacrificato, reprimendo parte di se stesso, per mettersi al servizio dei personaggi; in questo «Don Chisciotte» (spettacolo da lui ideato, costruito e diretto, oltre naturalmente che interpretato) s’è invece immolato per portare in ribalta – prima di ogni altra cosa – i valori dell’amicizia e della gratitudine.

Ricordare Vittorio Gassman e Carmelo Bene diventa un’esigenza di riguardo, un intimo divertimento. Branciaroli ha riversato l’intero suo bagaglio, a lungo tenuto serrato in baule della memoria e dell’esperienza, per rovesciarlo in scena come fosse ricolmo di «panni sporchi»: proprio quelli che si dovrebbero lavare in casa coi familiari. A sua discolpa, in verità, c’è però la questione privata cui prima si accennava, che non è secondaria alla riuscita dello spettacolo: infatti, sono certo che siano stati proprio loro, i familiari, a convincere Branciaroli di riproporre quei vecchi panni: sporchi perché da loro usati, cioè manipolati e macchiati di quel talento elitario di cui il nostro interprete si è cibato per anni; sporchi di quei concetti settari e di quelle forme delicate che segnano la crescita di ogni artista, in cui gli echi del passato risuonano, prima rari e distanti poi sempre più frequenti e netti, con certe sonorità, appunto, familiari, ora giocose, ora di rimprovero, ma sempre cariche di fascino e di emozioni.

E chi sono loro? Sono ricordi di persone che non riusciamo più a scrollarci di dosso, anzi da dentro, perché fanno parte di noi; sono i ricordi di quelle persone apparentemente morte che convivono con noi perché il nostro continuare a pensare si è sposato con il loro pensiero. Parliamo e non ci accorgiamo che le parole dette sono nate dalla fusione ideologica del nostro familiare; pensiamo e non ci accorgiamo che le nostre riflessioni scaturiscono dal sodalizio intellettuale ed emotivo con costoro. Arriviamo a pronunciare (muti, e non soltanto) il loro nome infinite volte al giorno. Dialoghiamo con loro e ci lasciamo suggerire i gesti, il da fare, il da dire. Cerchiamo consensi nella loro assenza come non avevamo mai fatto prima, quando era possibile.

Branciaroli stesso, senza forse badarci troppo, ce lo ha confessato in un’intervista: «Uso le loro voci perché sono le uniche che so imitare». Branciaroli ha usato quelle voci perché sono le sue voci, quelle che ha dentro, che conserva dentro di sé, quelle con le quali dialoga ogni giorno e con le quali ogni giorno misura le proprie idee con le loro risposte. Anche perché, non è vero che le sappia imitare a perfezione, però si avverte che perfettamente le conosce. Egli è stato vittima prescelta di quelle voci che lo hanno incantato proprio come Don Chisciotte si fece abbindolare dalla storia dell’incantamento: egli stesso ha scelto i testi più adatti a quelle voci che li richiedevano con insistenza e infatti, al capolavoro di Cervantes, ha accostato il canto V dell’Inferno, loro cavallo di battaglia. Tutto torna.

Così, mentre Vittorio Gassman, al meglio del suo istrionismo, è riuscito a portare in scena il personaggio Don Chisciotte mandando giù biondo whisky per sciogliersi la lingua impastata dalla noia del Paradiso, e dando sfoggio della sua più irritante simpatia; Carmelo Bene, investito delle sorti del fido scudiero Sancho, tra un sorsetto di gin e un ammiccamento intellettuale, non ha faticato a dimostrare di essere più scaltro dell’altro, culturalmente più preparato e anche più moderno. Un gioco perverso da cui Branciaroli sembra essere stato paradossalmente estromesso, schiacciato, ridotto a ballerino (per di più, sfacciatamente pessimo) d’un ritmo sudamericano stonato dal contesto. E fuori tema, cioè lontano dal concetto della rappresentazione dello spettacolo donchisciottesco che trionfa sul manifesto, fuori tema, dicevo, è pure la scena: un bancone da bar sovraccarico di liquori, e una poltrona, elementi casalinghi che ricordano una serata trascorsa insieme. A questi fanno da cornice due sipari che avvolgono gli arredi, e che oltre a rafforzare l’idea della teatralità, danno un tocco d’impalpabile regalità che potrebbe giustificare, o gratificare, l’idea di un angolo di Paradiso, dove fa capolino anche lo spirito di Dante. Il quale, per il titolo di miglior dicitore dei suoi versi, boccia i due contendenti per promuovere il terzo incomodo, Giorgio Albertazzi.

Il pretesto del Don Chisciotte non è durato molto. Gassman e Bene hanno preso il sopravvento su tutto: la gestualità di Vittorio, le intonazioni di Carmelo. Dopo il racconto dei mulini a vento, i fantasmi dei due istrioni sono passati all’analisi del testo (il momento più interessante). Poi si sono sfidati nella declamazione dantesca scegliendo la triste storia di Paolo e Francesca. Si sono alternati per dar sfoggio della loro bravura e della loro passione per il teatro e per Dante… ma non erano loro. Davanti agli occhi del pubblico reale, c’era il loro «pupo» preferito dalle sembianze di Franco Branciaroli che tentava di rincorrere i suoi ricordi fin sulla soglia del sogno: quello di poter partecipare a una serata ideale tra i suoi amici, i suoi maestri. (fn)
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Don Chisciotte, progetto e regia Franco Branciaroli. Scena e costumi di Margherita Palli. Con Franco Branciaroli

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