18 marzo 2024

Ricordo di Vito Riviello, poeta della notte

Vito Riviello,
nato a Potenza nel 1933
morto a Roma il 18 giugno 2009

USAVA LE PAROLE PER GIOCARE A SORPRESA

Il personaggio di una commedia che ho assai amato dice: «La morte vista su di sé è naturale, la morte vista sugli amici è diabolica». Verissimo. La scomparsa di un amico crea sempre una violenta lacerazione nel nostro sentimento affettivo che tuttavia, in qualche maniera riusciamo a salvaguardare per una sorta di autodifesa o per il rispetto verso la vita e per il ricordo della persona che non c’è più; ma resta viva l’assenza delle parole dell’amico che all’improvviso ci lasciano sperduti, in una solitudine senza conforto, in uno stato di abbandono definitivo. Se poi l’amico morto è un poeta che vive di parole, che dona senso alla vita nella maniera più nobile, usando la parola come simbolo di amicizia e di vitalità, allora la diabolicità della morte acquista un valore irreparabile. Qualcuno, alla vaga ricerca di una consolazione, potrà dire: le parole di un poeta sono quelle scritte; tutti i poeti ci hanno lasciato parole meravigliose. Sì, è certamente vero, ma chiunque scriva versi sa bene che le parole ancora non dette, quelle ancora da scrivere, ancora da leggere, ancora da ascoltare sono altrettanto necessarie. Per chi crede nella parola deve essere così. E con Vito Riviello questo indispensabile nutrimento si ripeteva a ogni incontro: parole nuove arricchivano parole già dette, e altre fiorivano da pensieri già pensati, fino a far sentire l’acquolina in bocca nell’attesa di una nuova scorpacciata.

È incalcolabile il numero di coloro che scrivono poesie. Quasi tutti noi abbiamo qualche verso nascosto, forse dimenticato in un cassetto, e riuscire a scovare un autentico poeta in questa moltitudine non è facile. Figurarsi incontrarlo per strada e riconoscerlo – per puro caso – in una notte di mezza estate, a Roma, a piazza di Spagna, mentre col passo disarticolato e lento va a comprare, in beata solitudine, il giornale fresco di stampa, appena fuggito dalle tipografie.

Uscivo da un ristorante di via della Croce, dove avevo cenato con un gruppo di sconosciuti, o quasi, amanti anch’essi della notte; avevo puntato una bella signorina americana che stranamente parlava italiano: accompagnandola sottobraccio, chissà dove, presi a raccontarle le solite cose per fiaccarla e farla cedere. Rispuntavano così gli antichi aneddoti del posto, quelli che ormai conoscevo a memoria, da Cesaretto con Ennio Flaiano, Sandro De Feo, Leo Longanesi, Mino Maccari, le leggendarie sceneggiature dei film imbastite in trattoria, i disegni abbozzati sulle tovaglie, insomma gli anni d’oro di via della Croce, piazza del Popolo, via Margutta con Fellini. All’improvviso un signore curioso ci guarda e intuisce tutto. Intuisce che a me, di quella ragazza, in fondo, non me ne importa un granché; intuisce che la ragazza è lì con me solo per ascoltare qualcosa d’inedito per lei; intuisce che io ero alla ricerca di ben altro. E i nostri sguardi si sono legati con un filo invisibile portandoci ad arrestarci l’uno di fronte all’altro, attirati come un magnete col ferro. Cominciammo a parlare quella notte con la leggerezza di un linguaggio che ci avrebbe accomunati, senza impegno, e da allora è sbocciata un’amicizia fresca, coltivata esclusivamente dall’amore per la parola. «Due persone che s’incontrano – cito ancora il personaggio di quel testo teatrale – credono all’eternità del loro incontro e operano in quel senso, proprio perché sospettano che non è vero. Non restano in area di parcheggio in attesa che arrivi il momento della partenza. Bisogna operare per rendere fertile ogni sodalizio, per prolungarlo. … Bisogna parlare, imparare a parlare, parlare per raccontarci, rivelarci, scoprire le affinità, parlare per essere sempre nuovi, per non invecchiare, … parlare per aumentare il volume dei sentimenti e non ridurre la vita un ricordo…». L’amicizia notturna con Vito è stata, a rivederla adesso, essenzialmente questo. Da parte sua un rinnovare la sua abitudine a confrontarsi con il gioco delle parole, per dribblare l’area di un presente assai poco vivace; da parte mia il modo migliore per lasciare alle spalle una brutta storia e andare avanti.

All’epoca Vito abitava in via del Babuino e io, tornando a casa dopo il lavoro al giornale, come al solito intorno alla mezzanotte, presi l’abitudine di cenare con maggior celerità per correre al consueto appuntamento con il mio nuovo amico e poter trascorrere un’ora, forse più, in compagnia sua e delle sue parole, in una Roma, a quell’ora tarda, finalmente meravigliosa e capace di riscattare tutta la sua magnificenza dell’antica nobiltà. Si parlava di vecchie avventure, di storie attuali, di improbabili novità; ma quel che alimentava la nostra vocazione a camminare insieme di notte era la curiosità per il particolare da scovare in ogni situazione. Anche nelle banalità, perché – lo si diceva spesso – di banalità è circondato il nostro quotidiano! E Riviello sapeva perfettamente che proprio lì era a disposizione tutto il necessario per innalzarsi, costruendo e inventando parole nuove e sorrisi fresche, essenzialmente per continuare a divertirsi a costruire versi.

Durante quelle passeggiate notturne, infatti, ho appreso la possibilità di reperire (stavo per scrivere rubare!) la poesia dai particolari reali che ci circondano. La metafora più semplice per spiegare questa magia, Vito la rintracciò in una donna che attraversava la strada: era una figura femminile normale, una qualunque si direbbe, nulla di speciale, ma Vito, come me, sapeva amare le donne a prescindere («Quanto tempo ho perduto / cercando il cinema / sulle tue labbra»), e insieme andammo alla ricerca di qualcosa di bello, che probabilmente  la sconosciuta nemmeno conteneva. La rintracciammo nell’atteggiamento con il quale ella si fermò a osservare una vetrina in via Condotti, diventando, per un elementare gioco di luci, una perfetta silhouette che si stagliava finalmente sinuosa e ammiccante per conquistare il prezioso oggetto chiuso in vetrina che non avrebbe mai potuto possedere. «Con l’identica presunzione – mi fece capire Vito – va ricercata la poesia: perché la poesia c’è sempre, in ogni cosa, ma bisogna avere l’occhio allenato e la certezza d’individuarla; a volte è sufficiente un po’ d’immaginazione, ma davvero una briciola, altrimenti si rischia di scivolare nelle iperboli, nei paradossi, nelle parabole, nelle favole e nessuno più ti prende in considerazione. Poi bisogna scriverla, ma è affare ben diverso: occorre fantasia di scrittura, e qualche decimo d’intelligenza, senza esagerare però, altrimenti stona». E così scoprii che molti dei miei versi, quelli scritti fino ad allora, erano assolutamente privi di poesia; squallide prove di romanticismo e nient’altro.

Appena entrati in confidenza gli feci leggere le mie composizioni, quelle che io reputavo migliori, e lui, con una di quelle grosse matite, rosso da una parte e blu dall’altra, le segnò una ad una: blu significava buona; rosso significava che avrei dovuto lavorarci di nuovo. E quelle non segnate? – domandai: «Quella roba lì, mai più!», fu la sua lapidaria risposta.

Come si sarà capito questo mio scritto non vuole essere un’analisi critica della poesia di Riviello; non ho né volontà e nemmeno la possibilità emotiva (adesso) di spiegare il poeta Riviello, rivoltare i suoi versi secondo principi letterari che la nostra amicizia non conteneva, ma anzi teneva a dovuta distanza. Negli ultimi tempi, infatti, Vito amava ripetere che il più grande poeta del Novecento era Totò, ma non il Totò scrittore di versi più o meno famosi (Malafemmena, ‘A livella), no; piuttosto il Totò personaggio, quello dei film, il pirotecnico maestro di musica, l’irresistibile burattino, l’indomabile comico: convinzione iperbolica o soltanto provocazione nei confronti di una critica infiacchita? Conoscendolo nell’intimo della sua vis verbale e giocosa, mi permetto di affermare e sostenere entrambe le motivazioni. È chiaro che una frase del genere nasca dalla disperazione di chi si sente abbandonato o, meglio, deluso da una critica che non esiste più, quella con cui Vito dovette fare i conti in gioventù, la scuola postcrociana degli anni Cinquanta e Sessanta; ma è vero pure che l’arte di Totò è stata, in un certo senso, l’abito con cui il poeta ha confezionato i suoi versi: «...un trasporto di virgole / rimise dolcezza e ordine / a una lunga frase / di natura critica…». Chi non ama le pinzillacchere di Totò non potrebbe mai apprezzare questi versi. C’è un connubio strettissimo e altissimo tra Riviello poeta e Totò attore: «Non so quanti sessi / mi appartengono ormai / plurimi mai fissi / moderatamente scissi…». È la dedizione per la risata, per il gioco, anche frivolo, per il guizzo scaltro che all’improvviso stupisce con puerilità: «Zarathustra è situata / all’incirca / tra Zara e Trieste». Oppure quest’altra, ancora più esplicativa: «Poiché l’occasione fa l’uomo ladro / tutti i furti sono occasionali».

Certo, per chi ancora crede che la poesia sia solo quella appresa sui libri scolastici, il confronto diventa arduo, ma Vito era un profondo sostenitore di quel dogma (creato, se non erro, da Leo Longanesi proprio negli anni in cui la formazione di Riviello si forgiava di briosa energia in una Roma che all’epoca era il cuore della vitalità globale): «Tutto quello che non so, l’ho studiato a scuola!»

Dicembre 2008. Presentazione del volume di Nicolini «Quelle che smuovono...»
Da sinistra: Antonio Ghirelli, Fausto Nicolini, Saverio Barbati e Vito Riviello

E io, suo giovane discepolo, tutto quello che poeticamente ora so l’ho appreso parlando ad acqua con lui. Espressione ricavata dalla leggerezza delle nostre incursioni notturne in cui ogni parola poteva colpire il prescelto come un innocuo schizzo nell’occhio. Totò ne sa qualcosa! Non a caso una mia silloge, successiva all’incontro con Vito, s’intitola Bischizzi che letteralmente significa tutta un’altra cosa (cioè: un gioco di parole, un’antica forma giocosa di poesia), ma che, invece, vuol essere un omaggio ai nostri dialoghi notturni, quando andavo a trovarlo nella sua nuova casa a San Lorenzo, quartiere dove si era trasferito. I doppi schizzi, cioè le nostre parole, le sue e le mie, che coglievano con leggerezza il particolare di un evento, sfottevano una moda, sottolineavano una fesseria. Lui incalzava e io prendevo appunti a mente. Dopo ogni incontro con Vito nascevano sempre nuovi versi, perché con lui era facile abbandonarsi alla poesia. Veniva naturale tradurre in poesia un concetto che altrimenti sarebbe stato trascritto solo come una sterile polemica. Invece, parlando con la leggerezza dell’acqua – lo schizzo che rimbalzando sullo scoglio acceca chi non s’aspetta l’improvviso dispetto – sono riuscito a costruire il mio stile poetico.

Con quella stessa leggerezza e innocenza, Vito raccontava delle sue visioni femminili: la russa, la parigina, la pittrice, la fotografa… in pochi attimi sembrava ti portasse con sé in un’affiche di Toulouse-Lautrec, al ritmo frenetico del can can. Se al mondo fosse vivo ancora un ingegno bohemien, Riviello l’aveva incarnato da pura pasionaria. Tra tanti poeti, o scrittori di versi, che ho conosciuto in questi ultimi anni, Vito era l’unico che viveva da poeta. Tutti noi abbiamo, purtroppo, un altro mestiere che ci ruba il tempo da offrire alla poesia, e ne siamo presi dai ritmi, dagli impegni, dalle seccature. Vito era l’eccezione: non solo perché libero di dedicare il suo tempo alla poesia, ma perché la poesia aveva più tempo per dedicarsi a lui. E non è un paradosso quest’affermazione se ci si convince che la poesia è sempre in tutte le cose che ci circondano: «Dobbiamo trattare la pace / occorrono subito trattative … ma anche le trattative / sono chiuse ora / aperte no-stop le stragi».

Adesso il lettore giustamente vorrebbe conoscere qualche nota biografica di Vito Riviello. A parte il fatto che non so quanto possano realmente contare le faccende private di un poeta: cosa cambia se il naufragare di Leopardi sia stato dolce nell’Adriatico o nell’Egeo, nei Sargassi o sull’Himalaya! Per dovere di cronaca dirò che Vito Riviello nacque a Potenza nel 1933 e che la sua Lucania se l’è portata dentro, da padre e da figlio della sua Terra, e l’ha difesa da buon meridionale; ma Vito sapeva di essere un ottimo meridionale e quindi l’ha anche criticata, pur amandola sempre. Moltissime composizioni sono dedicate alle sue origini di uomo del Sud, l’unico che a sud del sud ha saputo individuare un nuovo territorio, quel suddissimo che era lì da sempre, ma che nessuno era mai riuscito a scorgere.

E forse è proprio lì che Vito ha scoperto l’esistenza di un sottobosco poetico da evitare, da fuggire; un sottobosco che t’insegue anche se scappi al nord! Il sottobosco faceva parte della filosofia quotidiana di Riviello. Era la metafora per indicare il troppo facile, l’eccessivo buonismo, la dannosa superficialità del Sud, il volemose bene dei romani: «E poi non si può più vivere di nuvole / che vengono e vanno, / sperando / che se ne vadano, / temendo che ritornino». Com’è meridionale questa tempesta di fastidiosi fumi che accecano la vista all’intelletto! Inoltre, l’angusto viscido sottosuolo, a cui, in parte, si rivolge il neghittoso sospiro poetico, era rappresentato soprattutto dalla marmaglia di versifichieri dai quali Vito cercava riparo per tenersi più in alto, nascosto tra le cime degli alberi, come foglie estranee alla vita buia del sottobosco dove il sol tace, e dove accadono ignominie di cui un poeta, giustamente, non ne vuole sapere. Eppure, da laggiù, di tanto in tanto, qualcuno cercava di arrampicarsi fino a lui portandogli messaggi di per sé criticabili, a volte repellenti, per forme e contenuti, ma di cui Vito sapeva sorriderne e coglierne le sfaccettature per divertirsi e far divertire i suoi amici. Molte volte abbiamo riso sul linguaggio del sottobosco: una sera mi confessò che da lì sarebbero giunti «i nuovi barbari», pronti ad assalire le nostre sottili ironie (quanta ragione aveva!), le freschezze delle nostre idee che avremmo dovuto difendere per non perdere quel poco di poesia possibile che ancora si riusciva a individuare nell’avido processo di mimetizzazione. Noi, però, avevamo soltanto armi nobili e ormai vetuste, poco adatte a combattere una guerra così villica e allora trovammo il modo d’inventarci ancora altre parole per sconfiggerli. Ma all’alba eravamo già esausti, gli amici della Locanda stavano per chiudere i battenti e ci ritirammo nelle nostre case con la promessa di proseguire la teorica tenzone la notte successiva, affinché le nostre idee, le nostre sensibilità, il nostro linguaggio, trovassero nuova energia e un po' di sollievo.

Sempre lo stesso personaggio di quella commedia amata alla fine dice: «Abbiamo preso parte a tutti i naufragi... ma il naufragio delle parole ci trova ancora una volta impreparati». Vito Riviello era un poeta che ha saputo usare a suo piacimento il naufragio delle parole, per il suo divertimento giocoso, frizzante, a volte spumoso come le onde del mare in subbuglio. E mentre il linguaggio comune irrimediabilmente naufragava, lui era pronto a coglierne i nuovi imprevisti, i rovesci, per collezionare versi delicati ed eleganti in cui l’ironia intelligente era la zattera di salvataggio che lo ha tenuto sempre a galla senza mai farlo affogare. Se Géricault avesse conosciuto Riviello, in questo immaginario naufragio delle parole, il malinconico vecchio seduto a poppa nel dipinto della Medusa, invece di essere «già immerso nel riflesso della fine», sfoggerebbe un sorriso divertito, mai di sfida, piuttosto di certezza; quella stessa nata dalla consapevolezza di chi non si è mai lasciato cogliere impreparato dalle parole, semmai le sue parole sono state scoppiettanti e cólte. Costantemente sorprendenti. (fn)

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