12 febbraio 2010

Il Regista: un interprete chiamato Visconti

LUCHINO, UNA MANIERA DI CONCEPIRE IL TEATRO

La platea era quasi buia. Le poltrone erano ricoperte da enormi teloni grigi che per la leggera ondulazione causata dai filari degli schienali, regalavano un’atmosfera lunare. Soltanto tra l’ottava e la decima fila, a destra del corridoio centrale, un ampio ripiano di legno, rivestito da un panno nero, ritaglio di una quinta in disuso, era adibito a tavolo di regia, sul quale un cono di luce molto corto, proiettato da una lampada elettrica, indicava che si stava provando. Il riverbero faceva intravedere una bottiglia d’acqua, un bicchiere e più in là due pacchetti di sigarette ancora sigillati. Sulle poltrone adiacenti, appena scoperte dalla tela ripiegata su se stessa, un cappotto gettato nella penombra. Lui, il grande regista, era seduto, spalle all’ipotetico pubblico, in ribalta al centro del palcoscenico. La sua voce roca era un suono che trasmetteva tranquillità. Parlava, dava ordini, suggerimenti, spiegazioni, tutto secondo una logica visiva che non s'era ancora palesata.

Non si poteva immaginare altro quando Luchino tracciava con le parole il senso di una scena, non si poteva supporre una soluzione differente dalla sua. A ben guardare sembrava parlasse al vuoto, ma di tanto in tanto, un accenno di movimento faceva intuire che quelle silhouette stampate sul fondo fossero attori e non manichini. Accanto a lui, un secchio. All’interno del quale un grumo di segatura bagnata emanava un odore acre. La mano del regista rimaneva sospesa sopra il secchio e bastava uno scatto del pollice per far staccare la cenere dalla sigaretta che morbida cascava silenziosa come se non volesse interrompere il discorso. Luchino era lì intento a smussare quegli spigoli che inevitabilmente si creano tra un personaggio e chi lo interpreta con parole leggere e precise, come il sottile segno del fumo che si stagliava in controluce salendo dalle sue dita.

A un certo punto il grande regista lasciò cadere la cicca ancora accesa che, emettendo un impercettibile lamento, diede il segnale che la spiegazione era terminata. Batté forte le mani e il rimbombo s’avvertì fin sopra l’ultimo ordine dei palchi, laddove i fantasmi di Mirandolina, di Zio Vanja, di Olga, di Eddie Carbone erano rimasti in ascolto per comprendere un po’ meglio se stessi, e alzando appena il tono della voce, disse: «Cominciamo». Fu allora che sul palcoscenico si riconobbero le fisionomie di Paolo Stoppa, di Rina Morelli, di Sergio Fantoni, Ilaria Occhini, Corrado Pani e non solo. Qualcuno sparì dietro le quinte, altri presero posizione in scena, e quando un lungo fischio acuto partì dal di fuori, la signora Occhini si precipitò giù per una scala di ferro, seguita da alcuni suoi colleghi. In alto rimasero alcune donne urlanti. La spazio scenico si riempì di personaggi che scappavano e s’inseguivano, e il baccano aumentava. Visconti, rimasto seduto in proscenio, seguiva ritmi e movimenti con l’ondulazione del busto e impartiva ordini con gli sguardi e soprattutto con grandi gesti delle braccia come un direttore d’orchestra. Gli attori con la coda dell’occhio riconoscevano quelli a loro indirizzati ed eseguivano all’istante. Continuando a sottolineare le azioni e le reazioni con smorfie crudeli, protendendosi alle donne sulla balconata, all’improvviso irruppe a gran voce: «Dai, dai, più forte. Piangere, piangere più forte. Aiutatevi con il corpo. Non state girando un film, non c’è una telecamera che v’inquadra da vicino e rimanda le vostre espressioni ingigantite agli spettatori tramite lo schermo. Siamo a teatro dove si richiede una partecipazione collettiva e completa. Dovete celebrare ogni sera un rito in pubblico con i vostri fedeli. Piangere».

Era il 1959. Si stava provando una delle ultime scene di Uno sguardo dal ponte che la compagnia Morelli-Stoppa si apprestava a riproporre dopo la pausa estiva. Visconti aveva intuito che la commedia di Arthur Miller gli avrebbe portato una rivincita, gli avrebbe restituito la palma del trionfatore. E così fu. «Da quindici anni aspettavano un insuccesso e io li ho serviti con la trilogia della delusione», disse nelle sue stanze, dopo le prove, impugnando un tagliacarte d’argento largo come una daga su cui erano incisi i titoli di tutti i suoi allestimenti e di tutti i suoi film. «Dopo aver firmato quaranta regie, mi pare che abbia anche il diritto di sbagliare. Lo volevano, lo speravano ed eccoli accontentati. La verità è che se lo aspettavano già da molto tempo».

Sì, ma chi lo voleva, chi lo sperava? «Ammetto che a un certo punto possa avvenire una saturazione – confidò facendo scivolare la lama sul palmo aperto della mano, segno evidente di una sofferenza silenziosa – che possa, cioè, delinearsi una frattura tra il pubblico e l’interprete: succede in teatro come nel cinema». La crisi di Luchino Visconti cominciò la sera dell’11 ottobre 1958, al teatro Quirino di Roma, con la première di Veglia la mia casa, Angelo (commedia americana tratta da un racconto di Thomas Wolfe) interpretata da Lilla Brignone; poi si è aggravata con altri insuccessi: Due sull’altalena di Gibson, andata in scena a Parigi con Jean Marais e Annie Girardot, e I ragazzi della signora Gibbons (di Glickmans e Stein) proposta dalla Morelli-Stoppa. «Non è possibile presentare sempre capolavori al pubblico – riprese il regista dopo essersi accesa una esportazione con un fiammifero strappato da un astuccio sul quale erano stampate in caratteri dorati le sue iniziali L. V. M. – Ho sbagliato e me ne sono reso conto. Ho fermato uno spettacolo in passivo e ho sciolto una compagnia che altrimenti sarebbe andata avanti a vuoto per quattro mesi. Ma per quale motivo mettermi alla gogna?»

In effetti, la delusione dei suoi spettacoli fu come la bocciatura del primo della classe. Da molti anni la sua autorità teatrale era indiscussa e le sue influenze erano determinanti: al di fuori della sua schiera di amici, Luchino – e dico Luchino perché all’epoca tutti lo chiamavano così, senza specificare il cognome; esattamente come Maria, un nome così semplice e comune che allora stette a indicare solo lei, il grande soprano, come se non fosse appartenuto e non appartenesse ad altri che alla Callas – al di fuori della sua schiera di amici, dicevo, non godeva di sincere simpatie. Non poteva goderne. Luchino non fu soltanto un regista intelligente e raffinato, ma rappresentava un fenomeno teatrale e culturale unico, che non aveva analoghi esempi né in Italia né all’estero. Visconti era una maniera di concepire il teatro, divenne persino un modo di dire: «Sai, quello è uno che ha lavorato con Luchino…», si sussurrava nell’ambiente per sottintendere qualunque significato, positivo e negativo. Oppure il suo nome veniva usato anche al contrario: «Pensa, quell’altro è riuscito a farsi strada senza nemmeno lavorare con Luchino».

Visconti fu il primo in Italia a comprendere l’importanza di modificare la figura del capocomico. Insieme con Strehler, Orazio Costa ed Ettore Giannini costruirono il nuovo teatro italiano. Era evidentemente un’esigenza dell’epoca, ma lui fu davvero il primo: un lavoro di delicata ripulitura di stile. Grossolanamente il capocomico metteva in scena una commedia seguendo le indicazioni dell’autore, quelle scritte nelle didascalie, quando non era l’autore stesso a seguire le prove; Luchino s’impose come filtro artistico tra commediografo e interpreti, tanto da definirsi lui stesso un interprete, il primo. «Bisognava mettere ordine sul palcoscenico – scrisse – imporre agli attori una nuova disciplina, dare allo spettacolo un’impronta di verità. Soppressi la figura del suggeritore, lottai contro il vecchio vizio dell’improvvisazione, imposi orari di ferro a un pubblico ritardatario e poco rispettoso del nostro lavoro…», innovazioni violente che non potevano riscuotere una globale simpatia.

Sin dal 1945, dal suo primo allestimento ufficiale, al teatro Eliseo di Roma, il pubblico, accorso a vedere I parenti terribili di Jean Cocteau, fu sorpreso dalla novità che, oltre all’autore e agli attori, in scena s’avvertiva la presenza di un nuovo personaggio-chiave che impostava la recitazione secondo un’interpretazione suggerita dal testo, che studiava scene e costumi, e realizzava uno spettacolo curato nei minimi particolari seguendo un pensiero e una visione di stampo verista. Con quella regia, Visconti offrì al pubblico romano (pigro e ritardatario) la possibilità di inattesi spettacoli costruiti con gusto, cultura e meticolosità. A poco a poco sui manifesti il nome del regista cominciò ad apparire in cima, a caratteri simili a quelli dei protagonisti, «Luchino Visconti presenta»; e in basso pure era ripetuto: «Regia di Luchino Visconti». Era inevitabile che nascessero leggende e che queste si trascinassero molte invidie. «Sono stato spesso accusato di una ricerca esagerata del dettaglio della scenografia, dell’arredamento, dei costumi. Mi sembra un’accusa falsa perché la ricerca non è mai eccessiva. Se lo fosse schiaccerebbe il racconto, e mi pare che non sia mai successo. La necessità di avere una scenografia esatta, nasce dal desiderio di presentare un’opera storicamente credibile, una visione precisa della maniera di vivere, di agire, di comportarsi di certi personaggi immersi in un determinato mondo».

L’insegnamento di Visconti ha dato i suoi frutti: dalla sua scuola sono usciti allievi come Giorgio De Lullo, Franco Rosi, Franco Zeffirelli, Giuseppe Patroni Griffi. Tutti registi che hanno scritto la storia del teatro italiano del secondo Novecento. Oggi c’è una tendenza inversa. Si preferiscono periodi di prove più brevi, scene e costumi meno pretenziosi; ma ciò accade – dicono – per mancanza di fondi. Sì, è vero, gli spettacoli di Visconti senz’altro erano molto costosi, ma erano anche recipienti colmi di talento. E, si sa, ogni cosa ha il suo prezzo! (fn)

Già pubblicato sulla rivista Infofinax (novembre 2009)

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